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Cento numeri per capire l’autotrasporto. Fredde cifre che restituiscono però un ritratto indispensabile per orientare la rotta delle aziende, dare supporto alle decisioni politiche e informare l’opinione pubblica. È questo l’obiettivo di «un ritratto in cifre. 100 numeri per capire l’autotrasporto» firmato da Deborah Appolloni (con la collaborazione di Maria Carla Sicilia) ed edito da Federservice, editore di Uomini e Trasporti, che sarà presentato il 15 giugno a Roma, dalle ore 10, presso la sala Parlamentino del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (piazzale Porta Pia, 1). All’incontro, insieme all’autrice Deborah Appolloni e al direttore responsabile di Uomini e Trasporti, Daniele Di Ubaldo, ci saranno Maria Teresa Di Matteo (Presidente dell’Albo degli Autotrasportatori), Claudio Villa (Presidente di Federtrasporti), Massimo Campailla (Professore di diritto dei Trasporti e della Logistica, Università D’Annunzio (Pe-Ch), Damiano Frosi (Project Manager Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano), Clara Ricozzi (Vicepresidente del Freight Leaders Council), Paolo Starace (Amministratore Delegato DAF Veicoli Industriali). A seguire i rappresentanti delle principali associazioni di categoria analizzando i dati presenti nel volume, si confronteranno sul tema: «I numeri di oggi per comprendere il lavoro di domani». Al termine, a tirare le file, sarà Enrico Finocchi, Direttore generale per il trasporto stradale e l’intermodalità del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Il volume si snoda in 5 capitoli per seguire le evoluzioni di questo mondo: dalle conseguenze della crisi e dai cambiamenti delle aziende passando per le relazioni con l’Europa e il rapporto con la committenza, fino all’analisi delle infrastrutture e dei trend futuri. La prima edizione della pubblicazione è nata con il duplice scopo di mettere insieme la maggior parte di numeri possibili per il settore, sempre molto eterogenei per via delle fonti, ma anche decisamente “tardivi” per i lunghi tempi di elaborazione. Quando si parla di conseguenze della crisi, di concorrenza dei vettori dell’Est e di futuro,spessissimo ci si affida a luoghi comuni e a convinzioni non supportate dai numeri. Esempio: la crisi. Durissima con tanti (in particolare circa 20.000 padroncini), per altri ha significato l’opportunità per crescere e consorziarsi. Oppure, prendiamo l’Europa: per molti è fonte di concorrenza sleale, per altri invece costituisce la possibilità di abbassare diversi costi, delocalizzando le attività o di affacciarsi su nuovi mercati. Perfino il futuro, dove l’intermodalità potrebbe diventare uno strumento operativo sempre più diffuso, dovrà pur sempre fare i conti con la gomma e con quell’elasticità che soltanto il camion riesce a garantire, in particolare sulle brevi e medie distanze. I primi elementi del ritratto dicono che l’autotrasporto italiano sta cambiando volto: la crisi economica è stata pesante ed è arrivata quasi contemporaneamente la concorrenza da parte dei vettori dell’Est e l’aumento del gap di competitività rispetto ai colleghi europei. Tutti fattori che hanno inciso profondamente: dal 2010 sono scomparse quasi 17.000 aziende (-15%). Il maggior tributo, come detto, è stato pagato dalle imprese individuali, mentre sono cresciute Spa e forme aggregative come cooperative e consorzi. Un segnale di coesione che l’autotrasporto non aveva mai dato prima: il mondo dei “padroncini” si ritrova più debole, ma le aziende strutturate si fanno largo per affrontare situazioni più complesse, in cui l’Europa la fa da padrona nel bene e nel male. Il confronto con le aziende europee è stata forse la sfida più difficile di questi anni. Non soltanto perché ha innalzato la concorrenza sul mercato internazionale con un’offerta di trasporto più economica. Ma anche perché le aziende dell’Est, dopo l’allargamento dell’Europa, sono entrate anche nel mercato nazionale. Lo dicono i volumi perduti dal nostro autotrasporto: mentre le tonnellate/km trasportate dalle ditte bulgare crescevano tra il 2006 e il 2014 del 164% e quelle delle ungheresi e delle slovacche del 54%, a Ovest solo la Spagna portava a casa un magro +1%, per il resto l’Italia fa registrare un –51% come la Francia, il Belgio un –46% e la Germania si attesta a –40%. Ma lo dice pure la crescita delle operazioni di cabotaggio (comprese quelle illegali). Tra il 2006 e il 2015 mentre, secondo Eurostat, Germania e Francia vedevano aumentare le tonnellate trasportate in regime di cabotaggio rispettivamente del 186,6 e del 21,5%, il nostro paese toccava l’apice nel 2014 con 7,8 milioni di tonnellate, il 67,2% in più rispetto al 2006, tornando poi nel 2015 a un valore pari a quello di dieci anni fa. Un buon segnale che potrebbe trovare una spiegazione nell’introduzione dell’obbligo dell’onere della prova in caso di controlli su strada, varato con la lo Sblocca Italia a fine 2014. Infine lo dice pure il moltiplicarsi sulle nostre autostrade dei Tir con targa straniera. Secondo uno studio condotto dall’Albo degli autotrasportatori e dall’Associazione mondiale della strada (AIPCR) oltre il 60% dei camion che varcano i valichi alpini ha targa non italiana, i più numerosi sono romeni, ma ci sono alte percentuali anche di croati, sloveni e turchi. Ma non è tutto, perché i vantaggi di cui godevano molti autotrasportatori dell’Est hanno fatto balenare anche a molte imprese italiane tanti trucchi (più o meno legali) a cui ricorrere per abbassare i costi e “restare a galla”. Il primo metodo si chiama «delocalizzazione»: nel 2016 il 10% delle aziende interpellate da Gipa ha dichiarato di avere una filiale all’estero. Nel 2015 erano l’8%, nel 2013 il 5%. Stanno cambiando anche le soluzioni adottate per delocalizzare. Se nei primi anni del nuovo millennio, l’apertura di una filiale era la via principale, oggi sono valutate anche altre soluzioni come l’avvio di nuove società, acquisizioni di aziende locali o trasformazioni in intermediari, in partnership con vettori terzisti locali. Chi è rimasto in Italia, per continuare a competere si affida a tutto: distacco internazionale, esterovestizione, targhe bulgare, società rumene o patentini Adr sloveni. Ma tutto questo fa male non soltanto all’autotrasporto, ma anche ai mercati limitrofi dei fornitori. Le immatricolazione di veicoli pesanti, per esempio, sono cadute a picco, anche perché almeno un veicolo su tre tra quelli venduti viene immatricolato altrove. L’unico paese dove tra il 2008 e il 2015 le vendite di camion hanno registrato il segno «+» è la Polonia, passata da 16.401 a 20.586 immatricolazioni. Per il resto, il dato italiano è il più depresso tra i paesi considerati significativi nell’indagine Gipa-Unrae presentata a fine 2016: l’Italia, come pure la Francia, ha perso più della metà delle immatricolazioni, mentre la Germania è riuscita a limitare i danni a un -9%. Ma a far male è la progressiva erosione dei margini operativi. Oggi, stando a uno studio ripreso nel volume, le tariffe dei vettori italiani si aggirerebbero tra 1,10 e 1,20 euro a chilometro e non sempre riescono a coprire interamente i costi o ad assicurare un guadagno sufficiente. Invece, i colleghi dell’Est, spesso in violazione delle norme sui tempi di giuda, delle disposizione sul cabotaggio e con costi fissi inferiori, arrivano a viaggiare a 80-90 centesimi al chilometro. Buona parte del gap competitivo si basa sul costo del lavoro. Secondo un altro studio realizzato dal Comitè National Routier (Cnr), l’osservatorio nazionale francese del mercato del trasporto delle merci su strada, un autista assunto con contratto italiano costerebbe quasi 8 volte di più rispetto al collega con contratto bulgaro. A fronte dei 1642,37 euro del minimo tabellare previsto in Italia (per 39 ore settimanali), in Bulgaria se ne sborsano solo 214 per 40 ore a settimana (280 in Romania, 434 in Polonia). Se a questo ci si aggiunge il carico contributivo che in Italia pesa per il 35,9% (inferiore solo a Spagna e Belgio), rispetto al 18,5% della Bulgaria o il 22,8% della Romania, il quadro è abbastanza completo per capire la profondità del gap competitivo. Problematiche da risolvere, magari anche in sede comunitaria. Tanto meglio se prima che l’autotrasporto si misurerà con la sfida di andare incontro al futuro, di ridurre le emissioni nocive puntando su carburanti alternativi come Gpl o biocarburanti, di adottare i veicoli con guida assistita o autonoma che richiedono un up-grade professionale da parte delle aziende e degli autisti. Il mondo sta virando verso il commercio elettronico che richiede un vettore sempre più aperto alle sperimentazioni e alla specializzazione (il vettore 2.0), ma anche verso la digitalizzazione dei processi e l’industria 4.0. L’intermodalità, in parte già nel presente, sarà uno degli elementi più importanti per il trasporto futuro: comunque la gomma conserverà comunque un ruolo centrale grazie all’insostituibile flessibilità che la caratterizza

a cura di cnaveneto